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sabato 10 dicembre 2011

Plinio il Vecchio, Naturalis Historia: "L'infelice condizione dell'uomo" (VII, 1-5)

Chi ha frequentato il Liceo Classico sicuramente ha sentito parlare di questo autore di letteratura latina; ma, nella maggior parte dei casi, Plinio il Vecchio resta soltanto un nome legato ad un'opera quasi sconosciuta, la Naturalis Historia. Plinio era uno scienziato che si occupava un pò di tutto, appassionato della Natura e dei suoi misteri e spinto dalla passione della ricerca scientifica. Amava così tanto la scienza che fu per amore di questa che, nel 79 d.C., durante l'eruzione del Vesuvio che distrusse Ercolano e Pompei, Plinio perse la vita.

La Naturalis Historia fu l'opera in cui raccolse tutte le sue riflessioni scientifiche e tutti i risultati delle sue ricerche. E' per questo che non riscuote molto successo né tra gli studenti di latino, né tra i professori, ne tra i lettori in genere. Eppure, tra tutti quei dati e quelle informazioni, talvolta si trovano passi letterari di rara bellezza, delucubrazioni sulla vita e sull'uomo che illuminano pagine spesso fredde e noiose. Quello che vi sto per proporre è proprio uno dei passi più belli della letteratura latina, che affascinò lo stesso Leopardi migliaia di anni dopo. 

[...] Così, come l'ho descritta, è la situazione del mondo, con le sue terre, le popolazioni, i mari, i fiumi importanti, le città. Ma degna di non minore attenzione, in quasi tutti i suoi aspetti, sarebbe la natura degli esseri viventi che lo popolano, sol che l'intelligenza umana fosse in grado di indagarne ogni sua parte. Cominceremo a buon diritto dall'uomo, in funzione del quale sembra che la natura abbia generato tutto il resto. Ma essa ha preteso, in cambio di doni così grandi, un prezzo alto e crudele, fino al punto che non è possibile dire con certezza se essa sia stata per l'uomo più una buona madre o una crudele matrigna.
In primo luogo, lo costringe, unico fra tutti gli esseri viventi, a procacciarsi all'esterno i suoi vestiti. Agli altri, in vario modo, la natura fornisce qualcosa che li copra: gusci, cortecce, pelli, spine, peli, setole, piume, penne, squame, velli; anche i tronchi degli alberi li protegge dal freddo e dal caldo, con uno e talora due strati di corteccia. Soltanto l'uomo essa getta nudo sulla nuda terra, il giorno della sua nascita, abbandonandolo fin dall'inizio ai vagiti e al pianto e, come nessun altro fra tanti esseri viventi, alle lacrime, subito, dal primo istante della propria vita [...].
Subito dopo il suo ingresso alla luce, l'uomo è stretto da ceppi e legami in tutte le sue membra, quali non s'impongono neppure agli animali domestici. Così lui, che ha aperto gli occhi alla felicità, giace a terra con mani e piedi legati, piangente - lui, destinato a regnare su tutte le creature - e inaugura la sua vita fra i tormenti, colpevole solo di essere nato. Che stoltezza quella di chi, dopo inizi siffatti, si ritiene destinato ad imprese superbe! Il primo barlume di vigore, il primo dono che il tempo gli concede lo rendono simile ad un quadrupede [...].
Quanto a lungo resta molle la sua testa, segno della massima debolezza fra tutti gli esseri viventi! E poi le malattie, e le tante medicine escogitate contro i mali, ma anch'esse vinte ben presto da nuove sciagure! E ogni altro essere sente la propria natura: chi impara a correre velocemente, chi a volare con celerità, chi a nuotare. L'uomo, invece, non sa far nulla, nulla che non gli sia insegnato: né parlare, né camminare, né mangiare; insomma, per sua natura, non sa fare altro che piangere! Perciò, molti hanno pensato che la cosa migliore fosse non nascere, oppure morire al più presto.
Solo all'uomo, fra gli esseri viventi, è stato dato il pianto; solo a lui il piacere, che si manifesta in infiniti modi e nelle forme proprie alle singole parti del corpo; solo a lui l'ambizione, l'avidità, una smisurata voglia di vivere, la superstizione, la preoccupazione della sepoltura, e anche di ciò che gli accadrà dopo la morte. 
Nessuno ha una vita più precaria, né maggiore brama di ogni cosa; nessuno è preda di angosce più disordinate, né di un furore più violento. In conclusione, gli altri animali vivono bene tra i propri simili. Li vediamo aggregarsi ed opporre resistenza contro le specie diverse: i leoni non sono spinti dalla loro ferocia a combattere contro altri leoni, il morso dei serpenti non assale altri serpenti, e neppure i mostri marini e i pesci incrudeliscono, se non contro specie differenti. Invece, per Ercole, all'uomo la maggior parte dei mali è causata da un altro uomo.
(traduzione di G. Ranucci)

Leggere e tradurre passi come questo, che spesso, quasi per magia, illuminano anche situazioni e vicende contemporanee, perché contengono verità eterne e intrinseche alla natura umana, mi riconfermano la decisione ben presa di studiare latino e greco a Liceo e all'Università!
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1 commento:


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